Italia, un'economia che non cresce più

Onorevole Pagliarini, leggo dell’allarme lanciato dall’Istat: “otto milioni di italiani poveri. Tre milioni senza i mezzi minimi”. Leggo che a volte manca la benzina per le auto della polizia, che alcuni uffici giudiziari sono al collasso senza uomini e mezzi,  e così via. Ci può spiegare cosa sta succedendo? Perché mancano sempre soldi anche se la nostra pressione fiscale è tra le più alte d’Europa? Anna Sereni, via e-mail

Le faccio un esempio: la Repubblica italiana è come una famiglia che guadagna 80, avrebbe bisogno di spendere almeno 130 ma facendo salti mortali, debiti, cambiali  e numeri da baraccone riesce a spendere “solamente” 100.

I 20 di differenza tra quello che si guadagna (80) e quello che si spende (“solo” 100, quando va bene) vanno ad aumentare i nostri debiti. Noi li accumuliamo, anno dopo anno,  e a pagarli ci dovranno pensare i nostri figli.

Tutti parlano solo e sempre di quel 100 che spendiamo: qualcuno dice che è necessario spendere di più , altri si affannano a limarlo per riuscire a spendere di meno.

Ma il vero problema è il guadagno di 80. L’economia non cresce e non creiamo sufficiente  ricchezza. Nel 1995, il reddito italiano pro capite era superiore di circa il 4 per cento a quello medio relativo ai quindici paesi dell’UE; nel 2008 è sceso di 10 punti sotto la media: in pratica i cittadini italiani si sono impoveriti di quasi 1 punto percentuale all’anno in rapporto ai cittadini degli altri paesi  membri dell’Unione Europea (Fonte: Antonio Frenda “Povera Italia!” su www.lavoce.info, Giugno 09)

Se quel guadagno di 80 aumentasse non ci sarebbero  problemi. Quell’80 è il PIL, il prodotto interno lordo. E’ la ricchezza che genera il paese. Come aumentarla? Se ci fate caso non se ne parla  mai e nessun governo si pone l’obiettivo di aumentarla. Perché?

Provo a rispondere. Quello che sta succedendo era stato previsto con molta chiarezza fin dal 1994 da un signore che si chiama Kenichi Ohmae. Lo chiamano “mister strategia” , è consulente di uomini di Stato e di aziende ed è  lui che tanti anni fa ha coniato la parola stessa globalizzazione.

Sostiene, e  ha perfettamente ragione,  che i governi centrali nazionali ormai sono obsoleti e che è più probabile che essi soffochino la prosperità piuttosto che coltivarla. Ecco quello che  scriveva più di 16 anni fa in uno straordinario libro intitolato “La fine dello stato-nazione. L’emergere delle economie regionali”, pubblicato in Italia nel 1996 da Baldini & Castoldi.

"I governi nazionali tendono tuttora a considerare le differenze tra regione e regione in termini di tasso o modello di crescita come problemi destabilizzanti che occorre risolvere, anziché come opportunità da sfruttare. Non si preoccupano di come fare  per aiutare le aree più fiorenti a progredire ulteriormente, bensì pensano a come spillarne denaro per finanziare il minimo civile. Si domandano se le politiche che hanno adottato siano le più adatte per controllare aggregazioni di attività economiche che seguono percorsi di crescita profondamente diversi….  Concentrarsi unicamente su questi aspetti significa mirare soprattutto al mantenimento del controllo centrale, anche a costo di far colare a picco l’intero Paese, anziché adoperarsi per permettere alle singole regioni di svilupparsi e, così facendo, di fornire l’energia, lo stimolo e il sostegno per coinvolgere anche le altre zone nel processo di crescita."

Mirare soprattutto al mantenimento del controllo centrale, anche a costo di far colare a picco l’intero Paese: questa è la nostra malattia! Ecco perché la “Repubblica sovietica italiana” è ogni anno più povera. A Roma in questi anni nessuno (con una sola eccezione)  ha parlato seriamente di  “come fare  per aiutare le aree più fiorenti a progredire ulteriormente”. Questa idea, sembra incredibile,  è sempre stata considerata “egoista”. E così sull’altare dell’ideologia e del  Dio-voto  le imprese delle nostre ormai ex “aree più fiorenti”  hanno perso tempo prezioso con burocrazia e scartoffie perché al centro, a Roma, si è insistito  a costruire rigidi codici di regolamentazione, di permessi e di autorizzazioni per qualsiasi attività  senza capire che con la globalizzazione è invece fondamentale la cultura della libera iniziativa  imprenditoriale.  Ed hanno subito  una pressione fiscale e contributiva senza uguali:  di conseguenza non hanno potuto investire in ricerca, sviluppo, nuove tecnologie e nuovi prodotti. In Cina è successo esattamente il contrario, e gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. In questo modo il nostro paese  ha perso  e continua a perdere competitività e con essa  “l’energia, lo stimolo e il sostegno per coinvolgere anche le altre zone nel processo di crescita”.

Perché di queste cose non parla mai nessuno? Diamine, perché la casta  non è lì per amministrare nel modo migliore il paese, ma per ottenere e gestire (a turno) il potere.